Per me è un sabato come tutti gli altri. È un giorno di vacanza perchè non lavoro e non ho orari di nessun tipo. È una giornata che aspetto fin dall'inizio della settimana perchè come diciamo io e il mio compagno "comincia il nostro weekend", all'insegna del relax, della lettura, delle passeggiate col cane, dello shopping, delle uscite serali e di tutte quelle cose frivole che hanno l'obiettivo di spezzare la routine settimanale.
73 anni fa, il 27 gennaio 1945 cadeva anche lui di sabato. Sicuramente più freddo e gelido di adesso per un effetto serra non ancora pregresso, 7 mila persone, di cui tanti bambini, girovagavano nel campo di concentramento di Auschwitz abbandonati dai loro aguzzini, aspettandosi che una fine giungesse, in modo altrettanto macabro come fino a quel momento era stata la loro prigionia. Ma verso mezzogiorno l'incubo finisce e l'Armata rossa abbatte le barriere che li separarava dalla libertà e dalla vita.
Tra i superstiti, lo scrittore italiano Bruno Piazza fu uno dei primi a raccontare l'orrore subito nei lager nazisti. Liberato nell'inverno del '45, morì per un attacco di cuore l'anno dopo a quasi 60 anni, lasciandoci in eredità un racconto molto dettagliato della sua esperienza nel campo.
Il mio arresto avvenne a Trieste il 13 luglio 1944, un mercoledí, in maniera alquanto strana. Bastava una denuncia anonima perché le SS si scagliassero contro il denunciato e lo portassero in uno di quei "Bunker" che avevano inventato per strappargli con la tortura le confessioni e prepararlo ai successivi supplizi. Contro di me le denuncie erano due. Me lo comunicò dopo il mio arresto un capitano delle SS, aggiungendo che ero accusato di antifascismo e di avversione ai tedeschi mentre, crimine senza attenuanti, dovevo essere considerato di razza ebraica secondo le famose leggi di Norimberga. Mi avevano portato alla risiera di San Sabba, dove il delatore mi aspettava alla porta per il riconoscimento. La risiera di San Sabba, una grande costruzione con enormi cameroni dal soffitto a travature di legno, con annesso un forno crematorio che serviva ai tedeschi per incenerire le loro vittime, era stata adibita dalle SS ad anticamera per la raccolta delle vittime destinate ai campi di concentramento in Germania. Nel cortile, in una specie di autorimessa, erano state costruite delle celle angustissime, i cosiddetti "Bunker," 11 rivestite di cemento, con in mezzo un tavolaccio di legno che serviva da letto, e con una solida porta nella quale era praticato un piccolo foro per l'entrata dell'aria. Un uomo di media statura non poteva tenervisi ritto. Bisognava per forza sdraiarsi sul tavolaccio e una lampada abbagliante bruciava sugli occhi. Il capitano delle SS mi interrogò sulle ragioni della mia partenza da Trieste dopo che la città era stata occupata dalle truppe tedesche. "Perché avete abbandonato Trieste dopo 1'8 settembre? Dove siete andato? Che avete fatto? È vero che odiate i tedeschi, che non siete mai stato iscritto al partito fascista, che siete di razza ebraica? La razza, la razza, la religione non conta.
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Bruno Piazza, triestino ma di origine ebraica, diventa un prigioniero politico dei tedeschi nella Risiera di San Sabba per diverse settimane.
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Si sperava ancora, è vero, di evitare la deportazione in Germania, perché sembrava che la guerra volgesse al suo termine: gli Alleati avevano già occupata Roma e in Francia il Vallo Atlantico era stato spezzato e travolto. Ormai era questione di tempo: guadagnare una settimana o un giorno voleva dire molto. Nella risiera di San Sabba certo non si stava bene: le pulci ci mangiavano vivi; a migliaia questi insetti coprivano di punzecchiature le gambe e le braccia delle persone, di giorno e di notte. Si era obbligati ai lavori pesanti; scaricare i carri, asportare il concime dalle stalle, portar sacchi, botti e cassoni. E non mancavano le bastonate. Lo stesso capitano che mi aveva interrogato aveva bastonato a sangue un povero sarto fiumano che si trovava tra noi, obbligandolo a diciotto giorni di letto, solo perché aveva rovesciato un po' di concime nella stalla.
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Le condizioni di vita sono dure ma quello che si racconta dei campi di concentramento in altri paesi fanno inorridire chiunque. Per questo motivo, Bruno Piazza e gli altri prigionieri si sentono fortunati a rimanere in Italia.
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Dopo un paio di giorni dal mio arrivo alla risiera, la guardia che ci sorvegliava, entrando la mattina presto nel mio stanzone, chiamò ad alta voce il mio nome e cognome, facendoli precedere dal titolo: "Signor avvocato." Fino a quel momento mi avevano dato del tu, e appellativi poco aulici e curiali avevano accompagnato il mio nome. La sentinella mi fece scendere e mi disse che dovevo considerarmi libero e potevo andarmene a casa. Mi consegnò anzi, con tedesca meticolosità, tutti i valori che mi avevano sequestrato, mi fece firmare una ricevuta e poi mi accompagnò nello stanzone. "Siete libero," disse, "ma devo ancora tenervi sotto chiave. Fra due ore verrà il capitano e firmerà l'ordine di scarcerazione." Lentamente passarono le due ore. Ne passarono altre. Dei miei compagni di sventura qualcuno mi invidiava. Potevo dirmi fortunato. Nessuno finora era uscito libero da quel luogo. Era il primo caso. Qualche altro si mostrava scettico. Non era che un trucco, diceva, una finta, forse un tranello. Tutti mi davano incarichi per quando fossi uscito. La restituzione dell'orologio, del denaro e degli altri oggetti li aveva impressionati. Io accettavo gli incarichi come un buon augurio.
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Bruno però non viene liberato, ma trasfrerito in una nuova prigione, quella triestina del Coroneo. Questo sarà l'ultimo soggiorno italiano prima di essere caricato su un convoglio per finire ad Auschwitz.
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Il destino non volle che io rimanessi a lungo nel paradisiaco carcere del Coroneo. Dovevo passare attraverso l'inferno di Auschwitz, e ci sono passato, come la salamandra della leggenda attraverso le fiamme. Avevo 39 gradi di febbre quando la Gestapo mi sottopose ad un secondo interrogatorio nella cancelleria delle carceri. Solite domande, solite risposte: avete ascoltato radio Londra? odiate i tedeschi? quali circoli frequentavate? E la febbre perdurava quando dall'infermeria fui trasferito assieme ad altri cinque compagni in una cella speciale, in attesa di essere trasportato durante la notte al treno che partiva per l'interno della Germania. Era il 30 luglio 1944. Sulla parete della cella leggemmo una iscrizione: "Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate!"
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Rimase nel lager tedesco dal luglio del '44 fino al 27 gennaio 1945, ma quel che rende la sua testimonianza unica nel suo genere è che fu selezionato per l'eliminazione nelle camere a gas. Rimasto per un intero giorno in piedi insieme agli altri condannati a morte, venne fatto uscire dai nazisti insieme ad altre 11 persone, in quanto prigionieri speciali, poco prima dell'esecuzione finale.
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Il timore di rappresaglie contro i propri cari ha trattenuto molti dal cercare la salvezza nella fuga. La ferocia nazista ha speculato sul sentimento e sulla pietà delle sue vittime. Ha ucciso i figli per la fuga dei padri, ha ucciso i padri e le madri per la fuga dei figli. Per un colpevole sfuggito al castigo ha trucidato cento innocenti. I nazisti non hanno mai esitato. Se nelle spietate selezioni di Auschwitz le vittime prescelte non tentavano nemmeno di ribellarsi e, coscienti dell'ineluttabile, rassegnate, andavano alla morte nelle camere a gas, era perché sapevano che ogni tentativo di rivolta o di fuga avrebbe significato non solo la loro morte ma la morte di altri cento, di altri mille compagni innocenti.
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Ciao Nik, molto interessante e toccante la testimonianza che hai ricordato, sul campo di San Sabba ho proprio pubblicato un post pochi giorni fa...
RispondiEliminaBuona domenica :-)
Ciao Nik! Un bel post in memoria di un giorno così importante! :)
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